Che cos’è la Geopolitica delle religioni

Una scienza per il nuovo millennio   

di Alessandro Grossato

Nata da meno di un ventennio, lo sviluppo della geopolitica delle religioni si è svolto parallelamente all’intensificarsi dei processi, tuttora in corso, di desecolarizzazione e deoccidentalizzazione di ampie aree del mondo, soprattutto dell’Asia. La raffinatezza delle sue capacità di lettura, graduabili su diversi livelli di analisi spaziale, la rende uno strumento potente e imprescindibile per la comprensione dei più importanti fenomeni politici e sociali oggi in atto.

 

 

  1. Le recenti origini di una ‘nuova geopolitica’

É merito di Yves Lacoste aver introdotto per primo il concetto e il termine, assai appropriato, di «rappresentazioni geopolitiche». In pratica, secondo Lacoste, oltre alle situazioni geopolitiche che traducono, su di un dato territorio, le rivalità fra diverse potenze in conflitto, esistono anche idee geopolitiche antagoniste, individuali e collettive, storicamente consolidate, che si possono definire «rappresentazioni» in un duplice senso: cartografico, cioè facente riferimento alla rappresentazione grafica di un dato territorio conteso; e teatrale, ove i popoli e le nazioni protagonisti del dramma che si svolge nel territorio, sono descritti alla stregua di attori che recitino su di un palcoscenico[1]. Si potrebbe dire che le rappresentazioni religiose sono i mythomoteurs della geopolitica. In fondo, in quest’idea c’era già la premessa necessaria e sufficiente allo sviluppo d’una branca specifica della geopolitica, dedita allo studio e all’interpretazione di tutte quelle «rappresentazioni geopolitiche» collettive che scaturiscono dalle diverse religioni. Ma, sul finire del Novecento, le religioni erano quasi del tutto rimosse dal quadro della ricerca e della discussione politologica, perché considerate come un fenomeno storico e culturale ormai in fase d’inesorabile regressione ed esaurimento. E ancora oggi, come scrive François Thual, «sebbene tutti concordino sul fatto che le religioni siano un fattore non trascurabile delle relazioni internazionali, al di là di questa dichiarazione di principio, ci si accontenta, in generale, di relegare il fatto religioso nella sua dimensione geopolitica a un ruolo superficiale e secondario.»[2] Invece, scrive ancora Thual, «la religione non è un fattore secondario delle relazioni internazionali e non è nemmeno una sovrastruttura della geopolitica.»[3] In quello scorcio di fine secolo avrebbe dovuto essere evidente che le cose stavano cambiando, già da tempo.

La rinascita religiosa mondiale, che è ancora in corso, è stata definita da Gilles Kepel come la revanche de Dieu[4]. Secondo Kepel, che nel suo libro si concentra sulle tre religioni monoteiste, quest’inversione di tendenza è iniziata a partire dalla metà degli anni Settanta. Giustamente Huntington annota al riguardo, che il fenomeno, in realtà, «ha interessato tutti i continenti, tutte le civiltà, praticamente tutti i paesi.»[5] È quello che Thual ha definito, assai efficacemente, come «il riemergere del represso». Un sostantivo che, «preso in prestito dalla psicanalisi, sembra adattarsi perfettamente al periodo che si apre con lo smembramento, e prosegue con la caduta, dei regimi comunisti a partire dalla fine del 1989. Lo straordinario in questo avvenimento fu che la disintegrazione degli Stati comunisti mise a nudo delle problematiche nazionali e religiose che si credevano finite per sempre sotto il coperchio del socialismo.»[6] Così, anche per Thual, «come tutto sembra confermare, un certo numero di regioni del mondo sono entrate in un processo di desecolarizzazione, in particolare a livello politico (…) Ma la laicizzazione delle società e la desecolarizzazione degli spiriti non sono fenomeni contraddittori, poiché la laicizzazione concerne il comportamento degli Stati, e la desecolarizzazione l’attitudine degli individui di fronte alla religione come fattore d’ispirazione del comportamento politico.»[7] Va inoltre considerato un altro importante fattore, da diversi decenni la «modernizzazione non è sinonimo di occidentalizzazione»[8].

Solo nell’ultimo ventennio, e più esattamente a partire dal 1993[9], la geopolitica delle religioni è finalmente emersa dalla sua lunga gestazione, attestandosi, a livello internazionale, quale importante sottodisciplina di settore. Questo per merito, innanzitutto, dello statunitense Samuel Huntington, che per primo, pur senza nominarla, ne ha saputo sostanzialmente intuire, indicare, e in parte dimostrare, la straordinaria utilità per l’analisi e l’interpretazione degli insoliti e inaspettati eventi geopolitici che iniziarono a verificarsi durante la transizione dal XX al XXI secolo. Delle avvisaglie importanti c’erano già state con la lunga guerra civile in Libano, tra diverse fazioni religiose, durata dal 1975 fino al 1990, poi, nel 1979, con la rivoluzione khomeinista in Iran e l’inizio della guerriglia islamica contro l’Armata Rossa in Afghanistan. Ma è soprattutto a partire dal fatidico triennio 1989-1991, che il fattore religioso rivela in pieno la sua potenzialità geopolitica, con l’inizio, nel 1991, della guerra civile prima in Iugoslavia e quindi in Algeria, ma soprattutto con l’imprevedibile ‘Rinascita islamica’ nei Balcani e nelle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. In certo qual modo, Huntington prefigurò la matrice prevalentemente religiosa di quanto sarebbe avvenuto anche in seguito, culminando negli attentati dell’11 settembre 2001 e nelle guerre che ne sono direttamente conseguite, e che perdurano, fra molte incognite geopolitiche.

Il libro di Huntington viene tradotto in francese già nel 1997. In quegli stessi anni, saranno principalmente Yves Lacoste e François Thual ad assegnare il nome alla nuova disciplina, a fondarne in buona parte i principi, e a testarne progressivamente il metodo interpretativo. Già nel 1984-85 erano usciti due numeri speciali, rispettivamente il 35 e il 36, di «Hérodote», l’importante rivista francese di geopolitica diretta da Yves Lacoste, entrambi con il titolo di Géopolitique des islams. Nel 1990 esce il n. 56, col titolo Églises et géopolitique. Da allora, la geopolitica delle religioni diviene un tema costante di questo periodico. Le date di uscita delle principali monografie di François Thual, specificamente dedicate alla geopolitica delle religioni, e che, di fatto, gettano le basi di questa nuova sottodisciplina, sono invece comprese fra il 1993-2004, e cioè esattamente due anni dopo l’inizio della guerra nei Balcani, ma pochi mesi dopo la pubblicazione dell’articolo di Huntington. Va inoltre sottolineato che solo Thual ha avuto il coraggio di rivendicare con forza l’importanza di questa nuova scienza: «In questa fine di XX secolo in cui si vede risorgere in diverse religioni – che siano l’Islam, il Cattolicesimo, l’Induismo o, addirittura certi Protestantesimi – delle correnti fondamentaliste e integriste, si è decisamente obbligati, studiando il funzionamento concreto di questo risveglio religioso, a rendersi conto che la religione è al centro delle pratiche e dei dispositivi geopolitici.[10]» Dunque, «sembra legittimo definire il religioso come elemento a pieno titolo del sapere geopolitico, poiché il religioso è un fattore determinante e preponderante di ciò che Yves Lacoste chiama la rappresentazione geopolitica.»[11]

 

  1. Le rappresentazioni religiose dello spazio e della geografia

Fin dalle sue origini, la geopolitica deve più di qualcosa alla Storia delle religioni[12]. È infatti molto probabile che le due immaginifiche e suggestive rappresentazioni del Pivot of History e dello Heartland delle quali Sir John Halford Mackinder fa uso fin dal suo primo articolo di geostoria, e geopolitica ante litteram del 1904[13], abbiano attinto almeno uno spunto a certe descrizioni mitiche e rappresentazioni simboliche delle religioni dell’Asia centro orientale e meridionale, che a quell’epoca non solo erano ben note agli specialisti, ma che in particolare circolavano ampiamente proprio in quegli ambienti fabiani che il grande storico e geografo inglese amava allora frequentare. Ci riferiamo in particolare alla rappresentazione dell’Eurasia nella cosmologia indù e buddhista, come un’unica isola-continente, in sànscrito dvîpa, ruotante attorno all’asse immobile della montagna cosmica, il Meru[14]. Del resto, molte altre tradizioni religiose tendono a identificare il centro del continente con il massiccio del Karakorum e relativi dintorni[15]. Del resto non senza buone ragioni, di natura storica ed economica. Basterebbe pensare al vasto dispiegarsi attorno, e persino attraverso quest’immane nodo orografico, di tutte le più importanti rotte commerciali terrestri dell’Eurasia[16]. Ma anche il cosiddetto «martello mongolo», un’altra efficace espressione geopolitica coniata da Mackinder, a sua volta echeggia, e neanche tanto lontanamente, talune concezioni escatologiche e apocalittiche medievali, non solo cristiane[17].

Non va dimenticato che tutte le principali rappresentazioni umane dello spazio sono essenzialmente riconducibili a un archetipo religioso, come ci hanno insegnato Ernst Cassirer[18] e Mircea Eliade[19]. Molto brevemente, ricorderemo che questo avviene già a partire dall’orientamento dell’uomo in rapporto alle sei direzioni, concepite istintivamente per coppie di opposti simbolici: alto e basso, destra e sinistra[20], davanti e dietro. Nelle cosmologie religiose, la prima coppia di opposti viene fatta corrispondere a quella formata dalla terra e il cielo, e le ultime due coppie corrispondono invece, sul piano geografico, ai quattro orienti, cioè ai punti cardinali, nord-sud, est-ovest. Si arriva così alla rappresentazione del cielo come un cerchio, e della terra come un quadrato, quello formato dal suo intersecarsi col cielo in corrispondenza dei quattro punti cardinali[21]. Dalla cosmologia e dalla geografia sacra tradizionali derivano quindi la pianta simbolica, tonda o quadrata, della tenda, della capanna, dei primi altari, dei templi e infine delle città[22]. Fondamentale, in tutte queste rappresentazioni, resta sempre la posizione centrale e simbolicamente immobile dell’uomo, inteso sia come individuo che come collettività. L’idea di confine continuerà poi in molte culture, persino nell’ambito linguistico, una significativa contiguità semantica con la nozione di sacro, nel senso di luogo simbolicamente conchiuso, ritualmente delimitato, come nel latino sacer.[23]

 

  1. I diversi livelli d’analisi geopolitica delle religioni

Secondo Fernand Braudel, «les civilisations sont des espaces»[24]. Anche le religioni occupano degli spazi, e quasi sempre coincidono con quelli delle civiltà. Li occupano sia fisicamente che idealmente, attraverso quella mappa mentale collettiva costituita dai miti e dai simboli che su quel territorio insistono, come si è visto, sacralizzandolo.

Come ci ha utilmente insegnato Yves Lacoste[25], il geopolitico deve saper sempre distinguere diversi livelli d’analisi spaziale. Dal primo ordine di grandezza, che corrisponde alla scala planetaria, si arriva al sesto ordine, corrispondente alla scala di quartiere, passando per i livelli intermedi della scala continentale, statale, regionale e locale. Tale importante schema, che viene definito ‘diatopico’ o ‘multiscalare’, non è ancora stato applicato alla geopolitica delle religioni in modo veramente organico e coerente, neanche da François Thual, che solo in parte ne ha tenuto conto. Quanto segue, vuol esserne una prima, molto sintetica, applicazione. Giusto per indicarne, a chi ancora non la conosca, la potenziale utilità in questo specifico ambito, ma riservandoci di descrivere per ultimo il livello del primo ordine, quello planetario, a mo’ di conclusione.

 

  1. Quali sono e grandi religioni oggi protagoniste sul piano geopolitico

Al secondo livello di grandezza, quello continentale, troviamo le grandi religioni protagoniste della storia culturale dell’Eurasia, una delle quali, l’Islam, diffusa anche in una parte cospicua dell’Africa. Le indicava già Mackinder nella fatidica conferenza del 1904, come quasi prefigurate dal determinismo geografico: «A est, sud e ovest di questo cuore della terra si trovano regioni periferiche, disposte in una vasta mezzaluna e accessibili agli uomini di mare. La conformazione fisica ne individua quattro, e non è cosa trascurabile che, in generale, ciascuna di esse coincida con la sfera di diffusione di una delle quattro grandi religioni: Buddismo, Bramanismo, Maomettismo e Cristianesimo. Le prime due regioni sono le terre dei monsoni, una rivolta verso l’Oceano Pacifico, l’altra verso l’Oceano Indiano. La quarta è l’Europa, bagnata dalle piogge atlantiche. Queste tre insieme, pur ricoprendo meno di sette milioni di miglia quadrate, possiedono più di mille milioni di abitanti, cioè i due terzi della popolazione mondiale. La terza, coincidente con la terra dei Cinque Mari, ovvero, com’è spesso definita, il Vicino Oriente, è in gran parte priva di umidità per la vicinanza dell’Africa e perciò, salvo che nelle oasi, risulta scarsamente popolata.»[26]

Il difetto più rilevante di questa sinteticissima rappresentazione, è quello di ridurre l’area sinotibetana al solo Buddhismo, mentre sappiamo che vi sono presenti anche Taoismo e Confucianesimo. D’altra parte è altrettanto vero che queste tre religioni sono in relazione quasi simbiotica fra loro in quasi tutta questa vasta area, che travalica di gran lunga gli attuali confini della Cina. Comunque, da un punto di vista strettamente geopolitico, Mackinder ci indica chiaramente due cose: che i protagonisti storici nel Continente Antico sono solo quattro (Cina, India, Islam, Europa), e che lo sono stati, essenzialmente, proprio in quanto grandi culture religiose. Se Huntington si fosse da subito affidato a questo Nestore della geopolitica, non si sarebbe aggrovigliato con quel brutto elenco di ‘civiltà’[27], fra l’altro con tutta evidenza maldestramente ispirato a quelli di Spengler, Toynbee e Braudel. Thual propone un elenco più interessante, rigorosamente sub specie religionis, il quale comprende cinque grandi famiglie religiose: Induismo, Buddhismo, Giudaismo, Cristianesimo e Islam.[28] È quasi identico a quello di Mackinder, tranne che per l’introduzione del Giudaismo. Huntington ha comunque almeno il merito di cogliere la valenza religiosa del Confucianesimo, una realtà oggi importante, ma che molti, stranamente, vorrebbero negare, compreso Lacoste. E inoltre di saper distinguere nettamente il Cristianesimo Orientale da quello occidentale, altra cosa che Lacoste non sembra gradire molto.[29]. Secondo Huntington, infatti, «L’Europa finisce là dove finisce il cristianesimo occidentale e iniziano l’islamismo e l’ortodossia»[30]. In realtà Huntington dovrebbe distinguere in Europa anche l’area protestante rispetto a quella cattolica. Si tratta di tre importanti divisioni del Cristianesimo, a loro volta frammentate in diversi stati, ciascuno dei quali ha una diversa, specifica valenza geopolitica di terzo livello. Insomma, anche in questo caso bisogna saper applicar bene lo schema multiscalare introdotto da Lacoste. Thual ha il merito di intuire la particolare importanza che ha anche la sopravvivenza delle forme religiose più primitive, in tutto lo spazio che comprende la Cina, il Giappone, le Coree e l’Asia Centrale, e il suo mescolarsi con le forme religiose più evolute aggiuntesi in seguito, senza mai sparire del tutto. Egli identifica semplicisticamente tutto ciò con l’animismo, mentre sarebbe stato semmai più corretto parlare di sciamanesimo. E non sa comunque cogliere la funzione geopolitica che ha avuto storicamente questo strano amalgama mercuriale, nel collegare fra loro le culture religiose dell’Asia centrale e orientale. Mentre invece è stato semplicemente fondamentale nel favorire, in tutta questa vasta area, la formazione di regni ed imperi multiconfessionali, più o meno duraturi, in particolare quello di Gengis Khan. Persino in progetti politici poco noti dello scorso secolo, legati ad esempio alle eredità carsiche, e trasversali, del panmongolismo. E certamente potrà avere ancora un ruolo nel prossimo futuro, favorendo configurazioni oggi in gran parte imprevedibili.

Perché in fondo, gli Imperi tradizionali che insistevano nelle quattro aree indicate da Mackinder come sedi delle principali civiltà religiose dell’Eurasia, si sono estinti da meno, o molto meno di un secolo. L’Impero Cinese, di cui formalmente faceva ancora parte il Tibet fino all’anno prima, si estingue nel 1912. L’Impero Russo, erede di Bisanzio, nel 1917. L’Impero d’Austria e Ungheria, erede del Sacro Romano Impero, erede a sua volta di quello Romano d’Occidente, nel 1918. Il Califfato Islamico, formalmente, nel 1924. Nel 1947, l’ultimo a estinguersi è stato il British Raj, o, per meglio dire, l’Indian Empire, come fu denominato ufficialmente dal 1876. De facto l’ultima forma di impero in India.

Ha quindi perfettamente ragione Alessandro Vitale, a ritenere che i recenti eventi storici abbiano riportato «alla luce e sull’onda di un ciclo politico di lunghissimo periodo (almeno un millennio) variabili geopolitiche di fondamentale importanza, quali sono le concezioni e le ambizioni imperiali».[31] Non a caso gli antichi imperi eurasiatici avevano per simboli principalmente il Cielo e il Sole, ovvero il cerchio, la ruota e la sfera. Che ben esprimevano la loro innata aspirazione ad un dominio universale[32]. E il tendenziale rispetto nei riguardi di tutte le forme religiose comprese entro i loro confini. Va inoltre sottolineato che in Oriente, ma non solo, la funzione imperiale è spesso il culmine di qualunque gerarchia religiosa: «Nell’Islam, Dio è Cesare[33]; in Cina e Giappone Cesare è Dio; nel mondo ortodosso, Dio è il braccio destro di Cesare. La separazione e i ricorrenti conflitti tra Stato e Chiesa che caratterizzano la civiltà occidentale non sono esistiti in nessun’altra civiltà.»[34] Si può aggiungere che per il Buddhismo tibetano il Dalai Lama è un ‘Buddha vivente’, così come anche il Bogd Khan in Mongolia.

 

  1. Le religioni in rapporto alle nazioni e agli stati

 Al terzo ordine di grandezza della scala diatopica, l’analisi del geopolitico deve considerare la situazione, attiva o passiva, delle religioni entro i limiti, che potremmo definire ‘medi’, vale a dire quelli di una nazione, intesa in senso lato, o di uno stato. In tutti questi casi, ci si trova dinanzi a delle importanti ‘chiese’ o comunità religiose nazionali, dalla forte identità etnico linguistica, e con una lunga storia culturale alle spalle, ma che non sempre hanno avuto la fortuna di ritagliarsi un proprio territorio indipendente, e che quindi si ritrovano nella condizione, spesso difficile, di semplici minoranze religiose all’interno di uno stato in cui prevale un’altra forma confessionale. Inoltre, sempre a partire da questo terzo livello, e discendendo fino all’ultimo, diventa ‘interessante’ considerare tutte quelle altre religioni che, avendo un minor peso geopolitico, non sono annoverabili fra le grandi protagoniste su scala continentale. Ora, se è abbastanza facile definire tali situazioni in linea di principio, ciascun esempio concreto costituisce un caso a sé stante, e presenta caratteristiche proprie, sulle quali ovviamente qui non ci soffermeremo.

Cominciamo dal Cristianesimo. La Chiesa cattolica è costituita dalla comunione di diverse Chiese sui iuris: armena, caldea, siro malabarica, copta, etiope, maronita, sira, siro malankarese. Più le Chiese greco cattoliche: greca, italo bizantina, melchita, albanese, ungherese, macedone, russa, rutena, bielorussa, ucraina, bulgara, croata, serbo montenegrina, slovacca, rumena. Per quanto riguarda invece la Chiesa cristiana ortodossa, ci sono diversi Patriarcati: Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, e Mosca. Non va dimenticato che, alla stregua del Basileus bizantino, anche lo Czar di Mosca, ‘Terza Roma’, era per i Russi il vero capo della Chiesa Ortodossa. Esistono poi le Chiese nazionali autocefale georgiana, serba, rumena, bulgara, di Cipro, di Grecia, polacca, albanese, ceca e slovacca. E infine le Chiese autonome: del Monte Sinai, finlandese, estone, giapponese, cinese (in pratica estinta), ucraina. Per non parlare di altre realtà minori, alcune delle quali non universalmente accettate, o che appartengono più propriamente al primo livello della nostra scala, quello della diaspora planetaria delle religioni, di cui diremo alla fine. Chi si meraviglia oggi della riemersione politica delle etnie, persino in Europa, dovrebbe invece meditare sulla realtà, geopoliticamente rilevantissima, della loro autonomia identitaria, persino sul piano religioso. Per quanto riguarda il Protestantesimo, com’è noto, fin dalle origini luterane e germaniche, le Chiese protestanti hanno avuto la tendenza, oggi in declino, a dipendere direttamente dallo stato, e ad avere come capo il proprio sovrano, esattamente come a Mosca e Bisanzio. Una caratteristica che è rimasta in Inghilterra, Norvegia, Danimarca, e, fino a soli dieci anni fa, anche in Svezia.

Come sottolineava a suo tempo Alessandro Bausani, esistono tante forme d’Islam quante sono le realtà etniche, linguistiche e talvolta persino tribali, che il variegato processo di islamizzazione ha incontrato sulla sua strada, assimilandole, ma senza mai farle sparire del tutto. Render compiutamente conto delle articolazioni di terzo livello dell’Islam, è cosa che richiederebbe da sola un lungo articolo. Ricorderemo solamente che le vere divisioni raramente coincidono con gli stati nazionali attualmente esistenti, i cui confini sono spesso una pessima eredità sia della Prima guerra mondiale, che del processo di decolonizzazione. Così ad esempio, due stati oggi distinti come l’Egitto e il Sudan, dal punto di vista religioso, ma non solo, corrispondono a un’unica realtà ‘nazionale’, il che non è certo irrilevante dal punto di vista geopolitico. Mentre, all’opposto, l’Iraq racchiude nei suoi assurdi confini diverse realtà appartenenti al terzo, al quarto e persino al quinto ordine di grandezza della nostra scala. Per quanto riguarda le minoranze storiche presenti in altri stati, le più importanti e oggi attive dal punto di vista geopolitico, sono quelle viventi in India, in Cina, e in diversi stati caucasici.

Anche il Buddhismo, «pur costituendo un dato geopolitico incontestabile, resta tuttavia plurale per quanto riguarda le sue espressioni religiose, e frammentato su di una base nazionale per quanto riguarda la sua pratica sociopolitica.»[35] Le principali comunità sono quella cinese, tibetana, mongola e buriata, calmucca, giapponese, coreana, singalese, birmana, cambogiana, thailandese, laotiana, vietnamita, nepalese, bhutanese, malese. Ognuna di esse ha una sua storia religiosa, culturale e politica, spesso assai complessa, che non è qui possibile descrivere.

Confucianesimo e Taoismo. Il Confucianesimo non ha riguardato solo la storia religiosa della Cina, ma anche quella della Corea, del Vietnam, già posti per secoli sotto il dominio cinese, e persino del Giappone, a partire dagli editti emanati dall’Imperatore Kōtoku nel 646 d.C. Nonostante la rilevanza internazionale che, sul piano strettamente economico, quest’ultimo paese ha certamente avuto dopo la Seconda guerra mondiale, e nonostante la presenza d’una antichissima religione nazionale, lo Shintoismo, direttamente legata alla dinastia imperiale che è formalmente tuttora al potere, sul piano della geopolitica delle religioni il Giappone, che fra l’altro riuscì a contendere la Corea alla Cina anche sul piano religioso[36], rientra comunque pienamente nell’area sinica. Non dimenticare questa importante realtà, che finora è stata invece totalmente trascurata da tutti gli osservatori, significherà, fra l’altro, non doversi stupire troppo quando il Giappone, in un futuro davvero prossimo, finirà con l’avvicinarsi alla Cina sotto diversi punti vista, non escluso quello politico. In particolare in Corea l’eredità confuciana rimase importante finché durò il dominio cinese. Anche il Taoismo è da secoli presente al di fuori dei confini cinesi, in Corea, Vietnam, e Giappone, qui soprattutto nella sua forma ibrida del Buddhismo Zen, ma si trova anche in Bhutan, Thailandia, Malesia e più di recente persino in Indonesia. Nella forma poi delle società segrete malavitose, le cosiddette ‘Triadi’, il fenomeno della sua diffusione è planetario, quindi del primo ordine.

Infine, dell’Induismo ricorderemo solamente ch’esso si articola in una grande varietà di forme, alcune delle quali attestate in gran parte del subcontinente indiano, mentre altre si presentano con spiccate differenze all’interno dei confini di alcuni degli stati che formano l’Unione Indiana. Particolarissimo è l’esempio costituito dalla comunità di Bali, letteralmente un’isola indù in un arcipelago islamico.

Secondo Lacoste, i conflitti religiosi più violenti si hanno quando popolazioni appartenenti a diverse religioni, si trovano embricate tra loro all’interno di uno stesso, piccolo stato. Come ad esempio nella ex Iugoslavia, ma ancor oggi in Bosnia, nel Libano, in Israele, etc. Gli esempi più impressionati sono quelli riguardanti i piccoli stati del Caucaso, dove abbiamo, fra altri, il conflitto tra Armeni del Karabakh e musulmani Azeri, tra Georgiani e musulmani Abkhazi, e tra musulmani Ceceni e Russi[37]. Situazioni già relativamente gestibili all’interno dei grandi Imperi, diventano impossibili ed esplosive all’interno dei nuovi stati nazionali. Forse ha ragione Thual, quando scrive che la nazione rischia di esser stata solo «un momento della storia, di fronte alla lunghissima durata di questi fenomeni cultural-religiosi, di queste civiltà.[38]»

 

  1. I sottoinsiemi regionali e locali delle religioni

 E veniamo al quarto e quinto ordine di grandezza, che, per molti aspetti, sono forse i più intriganti geopoliticamente, per quanto riguarda le religioni. Come ha scritto Huntington, «In questo nuovo mondo, la politica, al livello locale è basata sul concetto di etnia, quella al livello globale sul concetto di civiltà.»[39] Il che ha una perfetta applicazione anche in ambito religioso. Così come esistono dei distretti linguistici[40], ci sono infatti anche dei ‘distretti religiosi’, o per meglio dire, dei ‘paesaggi religiosi’. Mario Alinei, che è stato presidente dell’Atlas Linguarum Europae, ha messo in evidenza con le sue vaste ricerche, l’estrema antichità, forse addirittura preistorica, e la permanenza, praticamente fino ai nostri giorni, dei principali distretti linguistici in Europa, ipotizzandola anche per l’Asia. Ma anche i ‘distretti religiosi’ hanno quasi sempre un carattere di longue durée storica e identitaria, a prescindere da quale sia, di volta in volta, la grande forma religiosa dominante. L’esempio più curioso è probabilmente quello di alcune etnie nomadi dell’Asia Centrale, in particolare turco-mongole, che nel volgere di poco tempo sono passate, senza grandi problemi identitari, dallo Sciamanesimo al Buddhismo, al Manicheismo, o al Cristianesimo. D’altra parte, i sottoinsiemi locali delle religioni sono perlopiù trascurati. Non solo dai politologi, ma anche dagli storici. In effetti si tratta spesso di situazioni confuse ed ingarbugliate, che imbarazzano persino gli specialisti. E che sono invece le situazioni ideali per chi opera strategicamente in un territorio, magari ostile. Gli Inglesi, in particolare, hanno sempre dimostrato in passato di riuscire a conoscerle assai bene, e di gestirle altrettanto. Com’è avvenuto anche di recente in Iraq, e, solo parzialmente, in Afghanistan.

La frammentazione etnico religiosa è favorita da particolari ambienti geografici, come le paludi e soprattutto le montagne. «Ghetti geografici», li definisce Thual[41]. Il fenomeno è stato indicato anche da Fernand Braudel. Com’egli scrive nell’interessante paragrafo Montagne civiltà e religioni della sua vasta opera dedicata alla storia del Mediterraneo[42], «La montagna, per solito, è un mondo a parte dalle civiltà, creazioni delle città e dei paesi di pianura. La sua storia sta nel non averne, nel restare abbastanza regolarmente ai margini delle grandi correnti incivilitrici, sebbene scorrano con lentezza. Capaci di allargarsi notevolmente in superficie, in senso orizzontale, si rivelano impotenti in quello verticale, dinanzi a un ostacolo di qualche centinaio di metri.»[43] Così, se in Europa le aree montane favoriscono la sopravvivenza di antichi culti, e si attireranno quindi tutti i processi e le persecuzioni del periodo della caccia alle streghe, nel Dār al Islām le montagne irachene albergano la comunità degli Yezidi, considerati adoratori del diavolo, e in Marocco le montagne del Sus vedono fiorire le figure carismatiche dei maestri sufi e dei loro seguaci. «Questa territorializzazione, questa segregazione geografica sono del tutto evidenti se si guarda una carta generale dell’Islam. Ad eccezione dell’Iran, gli sciiti si trovano nelle zone montagnose o periferiche, zone in cui si può continuare a vivere la propria fede “eretica” lontano dalle minacce del potere installato nelle pianure.»[44] Se noi analizziamo i diversi nuclei di popolazioni sciite sparse nell’area islamica, possiamo spesso renderci conto della loro identità precedente, ad esempio di come gli sciiti del sud dell’Iraq discendano da nomadi sedentarizzati, che hanno aderito allo Sciismo alla fine del XVIII secolo.[45]

Talvolta, attorno a queste minoranze religiose può addensarsi il nucleo, relativamente egemone, di un nuovo stato, politicamente indipendente. Come è avvenuto alla tarîqa Sanūsiyya, in Libia. Perfetto esempio di una confraternita su base sia etnica che religiosa allo stesso tempo, fu prima la catalizzatrice delle tribù beduine cirenaiche, ed ottenne quindi nel 1951 di governare il nuovo stato, con il suo maestro divenuto re. E com’è avvenuto ai misteriosi, assai poco ortodossi Alawiti, o per meglio dire Nusayri, in Siria. Tuttora saldamente al potere. Due esempi, sia pure diversi, in cui delle organizzazioni religiose sono passate direttamente dal livello geopolitico locale a quello statale. Un passaggio che, con il suo attuale embrione di stato, si accingerebbe oggi a fare anche l’etnia curda, appartenente in massa a una delle branche della tarîqa Naqshbandiyya. Talvolta, ma capita assai di rado, sono le etnie ad avere un’origine religiosa settaria, com’è probabilmente avvenuto a Yezidi, Sabei e Mandei in Iraq, ma soprattutto ai Drusi, fin dalle origini rigidamente endogamici, e oggi presenti soprattutto in Libano. Tutti interessanti esempi di etnogenesi, per dirla con Lev Gumilev[46], ma di matrice squisitamente religiosa.

Le religioni hanno elaborato diverse strategie per meglio controllare, anche geopoliticamente, le diversità di tutti i tipi esistenti all’interno delle proprie aree. Da sempre il Vaticano ha esercitato un efficace controllo delle comunità cattoliche sparse nel mondo, attraverso lo strumento efficacissimo degli ordini monastici e missionari, che per sua stessa natura, ad esempio il reclutamento locale, è facilmente adattabile alle differenze sociali, etniche e linguistiche di queste stesse comunità, e ai particolarismi sociologici e geopolitici delle diverse aree. L’Induismo ci è riuscito attraverso l’efficace sistema delle caste, molte delle quali in realtà raggruppano antichi nuclei etnici e tribali, induizzati mediante un processo plurisecolare, che fra l’altro è tuttora in corso. In Cina è stato soprattutto il Taoismo, con la sua tipica frammentazione, fin dalle origini, in una molteplicità di culti locali, e poi di scuole e monasteri, a tenere legate fra loro anche le più piccole comunità etniche e linguistiche, spesso eredi di più antiche forme di sciamanesimo, sparse nell’immensità dell’Impero cinese. Mentre il Confucianesimo restava, quasi esclusivamente, l’ideologia religiosa della corte imperiale e della ristretta élite aristocratica del paese. E ancora oggi, della nomenklatura comunista. Nell’Islam, da molti secoli, è questo il compito, sia sociale che geopolitico, esercitato della numerose confraternite sufi: «Le confraternite che formano un Islam nell’Islam, hanno permesso, un po’ come gli ordini monastici del Cattolicesimo, di gestire tutte le diversità etniche e sociologiche che l’espansione ha moltiplicato. (…) La vitalità dell’Islam, la sua souplesse, la sua capacità di non scindersi, di non conoscere dei separatismi è dovuta al fatto che le moschee – luoghi di culto, di insegnamento e di vita sociale – sono sovente duplicati da un insieme variato di confraternite talvolta rivali, che permettono di gestire gli elementi di variabile eterogeneità fra un paese e un altro – persino fra una regione e l’altra. Queste confraternite dispongono esse stesse di un sistema assai elastico d’inquadramento. La forza del sistema delle confraternite risiede nella sua deterritorializzazione poiché le confraternite sono articolate in reti e non insistono su un territorio delimitato. Il suo secondo punto di forza è dovuto al ciclo storico che caratterizza le confraternite: protesta spirituale all’origine, divengono un fenomeno di costume, per divenire infine delle forze politiche, e poi delle realtà economiche, come illustra il fenomeno dei Muridi nel Senegal, che formano una confraternita assai potente sia politicamente che economicamente. »[47]. Come giustamente sottolinea Thual, è in gran parte merito delle confraternite se, fra l’altro, non si sono più formate nuove importanti scissioni dopo quella sciita.

 

  1. La mondializzazione delle religioni

 Sulla scala planetaria dell’analisi geopolitica, si può infine cogliere il fenomeno della cosiddetta mondializzazione delle religioni. Un fenomeno immenso, sul quale ci è impossibile qui soffermarci, e che presenta aspetti geopolitici, che sono peculiari di ciascuna specifica situazione. Tale processo ha notevolmente complessificato gli spazi religiosi tradizionali. Prefigurato prima dalle numerose diaspore ebraiche, continuate anche in età contemporanea, dall’immensa espansione dell’Islam tra Africa ed Eurasia, nonché dalla vasta emigrazione commerciale cinese in tutto il sudest asiatico ed oltre, Occidente compreso, si tratta di un fenomeno plurisecolare[48], che comunque ha subito un’inarrestabile accelerazione solo a partire dal XV secolo. I ritmi e le forme ch’esso ha assunto, variano molto da una religione all’altra: esilio, conversione, missionarismo, colonizzazione, immigrazione, etc. Attraverso il processo di colonizzazione che si svolge fra il XV e gli inizi del XX secolo, è il Cristianesimo che riesce a diffondersi per primo in quasi tutto il mondo. Assai interessante, a questo riguardo, è il dato relativo alla diffusione planetaria del Cristianesimo, nel suo insieme. Tenendo conto che la popolazione mondiale durante questi ultimi cinque secoli è passata da circa 426 milioni agli attuali 6 miliardi, la percentuale dei cristiani, che era del 19 per cento agli inizi del 1500, raggiunge il culmine del 35 per cento nell’anno 1900, per declinare al 33 nel 1980, e addirittura al 23 per cento nel 2000.[49] Inutile sottolineare la rilevanza geopolitica di questo dato. Che va integrato con quello, purtroppo mal documentato, relativo alle recenti conversioni in massa degli occidentali, a religioni quali in primo luogo l’Islam e il Buddhismo. Centinaia di migliaia di occidentali si sono convertiti al Buddhismo negli ultimi trent’anni. Solamente in Francia se ne contavano più di 500.000 nel 2002.[50] Nel 2001 su trecentosettanta milioni di buddhisti, trecentosessantacinque vivevano in Asia, mentre gli altri cinque sparsamente nel mondo, un milione e ottocentomila nella sola Europa dell’Ovest. Sempre per quell’anno, si calcola un totale di circa un milione di convertiti in Occidente.[51] Altre religioni, ad esempio l’Induismo e l’Islam, si sono sparse a pioggia nei vari continenti grazie al fenomeno dell’emigrazione di lavoratori interna all’Impero britannico. L’emigrazione di lavoratori islamici riguarda ormai soprattutto l’Europa, che già conta entro i suoi confini circa di musulmani. Il Buddhismo tibetano, cioè il Lamaismo, si è attestato con diverse piccole, ma compatte, comunità di esiliati in Europa e in America. Come rileva Thual, tutte le principali religioni si sono mondializzate soprattutto a seguito di un duplice movimento, prima determinato dall’espansione coloniale occidentale e poi, quasi per contrappasso, dalla decolonizzazione.[52] Di grande rilevanza geopolitica è, in particolare, il fenomeno della massiccia e ininterrotta immigrazione di lavoratori islamici in Europa. Quel che forse è meno noto, è la presenza fra queste ondate di immigrati, di molti appartenenti alle confraternite del Sufismo, che ormai reclutano anche numerosi occidentali. Perché «Tali confraternite formano un cemento relazionale che, pur mantenendo una forte autorità spirituale, ha saputo sposare le asperità delle società in cui si è propagato l’Islam. (…) Dotato di una struttura acefala e di una gestione tradizionalmente decentralizzata, il sistema delle confraternite ha sovrapposto, a delle moschee sempre più rare e a dei modi di vita sempre meno tradizionali, delle reti di relazioni che appaiono certamente, alla sociologia e alla geopolitica delle religioni, come una forma notevolmente adatta al mondo moderno.»[53]

Comunque, non ci sembra che questo quadro, pur impressionante, ma sostanzialmente sfaldato e quindi irrilevante, davvero superi oggi come importanza geopolitica la sfida che le due o tre grandi culture religiose dell’Asia stanno compattamente lanciando al vecchio Heartland mackinderiano. Diversamente da Lacoste[54] e da Thual, siamo invece convinti, con Huntington, che lo scenario geopoliticamente decisivo apparterrà al secondo ordine di grandezza, quello continentale. E non solo sul piano religioso.

[1] Cfr. la voce Représentations géopolitiques redatta da Y. Lacoste per il Dictionnaire de Géopolitique, Flammarion, Paris 1995, pp. 1278-1280.

[2] F. Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, Società Editrice Barbarossa, Milano 1995, p. 33.

[3] Ibidem, p. 109.

[4] G. Kepel, La revanche de Dieu: Chretiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Éditions du Seuil, Paris 1991 (trad. it.: La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991).

[5] S.P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 131.

[6] F. Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, cit., cap. XII, p. 99.

[7] Ibidem, pp. 108-109.

[8] Huntington, op. cit., p. 15.

[9] L’anno dell’uscita nel numero estivo di «Foreign Affairs» dell’articolo di S.P. Huntington, The Clash of Civilizations?. L’argomento viene ripreso, tre anni dopo, in The Clash of Civilizations and the Remaking of Word Order, Simon & Schuster, New York 1996 (trad. it: Lo scontro di civiltà, op. cit).

[10] F. Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, cit., p. 109.

[11] F. Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, cit., p. 111.

[12] A. Grossato, Dalla ‘geografia sacra’ alla ‘geopolitica delle religioni’, in «Letteratura – Tradizione», n. 31, aprile 2005, pp. 2-4.

[13] H.J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The Geographical Journal», XXIII, April 1904, pp. 421-444 (trad. it.: Il perno geografico della storia, in «I castelli di Yale. Quaderni di filosofia», n. 1, 1996, pp. 129-162).

[14] Vedi in A. Grossato, Alessandro Magno e l’India. Storico intreccio di miti e di simboli, in «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», vol. I, 2008, pp. 275-312, il capitolo Meros e Meru, la montagna cosmica, pp. 287-290.

[15] Vedi R. Fracasso, Manifestazioni del simbolismo assiale nelle tradizioni cinesi antiche, in «Numen», n. 22, 1981, pp. 194-215, p. 205, n. 33.

[16] Sulla ‘via del vino’ e la ‘via del cavallo’, vedi in particolare A. Grossato, Alessandro Magno e l’India…, cit., pp. 280-284.

[17] Vedi D. Bigalli, I Tartari e l’Apocalisse. Ricerche sull’escatologia in Adamo Marsh e Ruggero Bacone, La Nuova Italia, Firenze 1971.

[18] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. I, L’espressione dello spazio e delle relazioni spaziali, pp. 175-200.

[19] M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 19732. In particolare il I capitolo, Lo spazio sacro e la sacralizzazione del mondo, pp. 19-46.

[20] Vedi R. Hertz, La preminenza della destra e altri saggi, Einaudi, Torino 1994, ma anche F. Fabbro, Destra e sinistra nella Bibbia. Uno studio neuropsicologico, Guaraldi, Rimini 1995.

[21] Vedi G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi, Milano 1983, p. 283.

[22] Vedi P. Deffontaines, Geografia e religioni, Sansoni, Firenze 1957, pp. 156-159. Ma soprattutto J. Rykwert, L’idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico, Einaudi, Torino 1981.

[23] Vedi A. Grossato, In principio era il confine, in «Il Domenicale», sabato 7 maggio 2005, pp. 6-7.

[24] F. Braudel, Grammaire des civilisations, Arthaud, Paris 1987.

[25] Nella sua introduzione al Dictionnaire de Géopolitique, op. cit., pp. 1-35.

[26] H.J. Mackinder, op. cit., pp. 141-142.

[27] S. Huntington, op. cit., pp. 22-23.

[28] F. Thual, Géopolitique des religions. Le Dieu fragmenté, Ellipses, Paris 2004, p. 8.

[29] Y. Lacoste, Lacoste, Géopolitique des religions, in «Hérodote. Revue de géographie et de géopolitique», n. 106, 2002, pp. 7-11, p. 9.

[30] S. Huntington, op. cit., p. 230.

[31] A. Vitale, Terra e Impero…, cit., p. 6.

[32] Sulla simbologia eurasiatica del potere politico, vedi A. Grossato, The Anaryan Cakravartin, in G. Verardi, The Kushâna Emperors as Cakravartins. Dynastic Art and Cults in India and Central Asia, in «East and West», vol. 33, 3-4, dicembre 1983, pp. 282-87; Id., Sovranità universale e regalità particolari nell’Induismo, tra mito e storia, in La regalità, a cura di C. Donà e F. Zambon, Roma, Carocci, 2002, pp. 15-31; Id., I simboli arcaici del Buon Governo in Eurasia, in Il Buono e il Cattivo Governo. Rappresentazioni nelle Arti dal Medioevo al Novecento, a cura di G. Pavanello, Marsilio, Venezia 2004, pp. 165-180.

[33] Cfr. A. Grossato, Khalîfa e Khilâfa secondo il Tasawwuf e concezione dantesca del ‘Santo Impero’. Raffronti e possibili influenze, in Echi letterari della cultura araba nella lirica provenzale e nella Commedia di Dante, Atti del Convegno Internazionale, a cura di C.G. Antoni, Università di Udine, Campanotto Editore, Pasian di Prato (UD), 2006, pp. 130-142.

[34] Huntington, op. cit., p. 92.

[35] Thual, Géopolitique du bouddhisme, Éditions des Syrtes, Paris 2002, p. 82.

[36] Cfr. Thual, Géopolitique du bouddhisme, cit., p. 19.

[37] Lacoste, Géopolitique des religions, cit., p. 12.

[38] Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, cit., p. 109.

[39] Huntington, op. cit., p. 17.

[40] M. Alinei, Origini delle lingue d’Europa, 2 voll., il Mulino, Bologna 1996-2000.

[41] F. Thual, Géopolitique du chiisme, Arléa, Paris 2002, p. 28.

[42] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2002, vol. I, pp. 18-22.

[43] Braudel, op. cit., p. 18.

[44] Thual, Géopolitique du chiisme, cit., p. 27.

[45] Thual, Géopolitique du chiisme, cit., p. 11.

[46] L.N. Gumilev, Ethnogenesis and the biosphere, Progress Publishers, Mosca 1990.

[47] Thual, Géopolitique du chiisme, cit., p. 18.

[48] F. Thual, Géopolitique des religions, cit., pp. 7-23.

[49] Thual, Géopolitique des religions, cit., p. 10.

[50] Thual, Géopolitique du bouddhisme, cit., p. 9.

[51] Thual, Géopolitique du bouddhisme, cit., p. 76.

[52] Thual, Géopolitique des religions, cit., p. 14.

[53] Ibidem, pp. 18-19.

[54] Lacoste, Géopolitique des religions, cit., pp. 14-15.

Lascia un commento